Il mio Suolo Natal
Il mio Suolo Natal
Il luogo di nascita di una persona è una parte intrinseca del suo essere; a volte si è consapevoli del posto che occupa nella nostra vita e altre volte è presente in modo onnipervadente in tutto ciò che facciamo, in come pensiamo, in quello che mangiamo.
Il mio suolo natal è l'Argentina, ma la mia anima ha un altro estremo e quell'estremo è l'Italia.
Dall'Italia sono arrivati tre dei miei quattro nonni. A casa nostra siamo cresciuti ascoltando radio italiane dove andava a ripetizione la musica di prima della guerra, richiesta dagli immigrati che così cercavano di far tornare un po' indietro il tempo, al loro suolo natal.
Mia madre ha studiato italiano e lo ha insegnato per quasi 50 anni nelle scuole superiori.
I miei pranzi domenicali odoravano di ravioli al sugo e così, piano piano, anch'io sono entrata in quel mondo.
Anche sul lavoro sono stata abbracciata dalla comunità italiana; prima dal CO.MI.TE.S. di Lomas de Zamora e poi come parte, per 20 anni, del Patronato italiano internazionale più importante e prestigioso che esista. Molto di quello che so l'ho imparato lì e per questo sarò sempre grata.
Ma è arrivato il momento di spiccare il volo e iniziare un percorso personale diverso. Questo percorso si chiama Suolo Natal Cittadinanza Italiana. Da Suolo voglio mettere a disposizione oltre 20 anni di conoscenza ed esperienza affinché possiate ottenere la vostra cittadinanza italiana.
Vi invito a visitare la pagina e a contattarci per assistervi in tutti i servizi relativi alla vostra cittadinanza. Benvenuti.

"Definire" l'italianità, "misurare" il legame.
La catena della cittadinanza italiana é stata spaccata da un governo che si pensa capace di definire l'italianitá e di misurare il legame dei discendenti.
Il governo italiano ha trasformato oggi in legge il decreto numero 36, che taglia drasticamente l'accesso alla cittadinanza italiana per i discendenti nati all'estero. Lo fa basandosi su una presunzione —e uso questa parola letteralmente—: che chi è nato fuori dall'Italia non abbia più alcun legame con il paese.
Si presume, per esempio, che non siamo legati perché molti non parlano la lingua. Ma questa visione dimentica —o decide di ignorare— che i nostri antenati, quelli che emigrarono dall'Italia, non parlavano neanche "l'italiano", ma dialetti locali. Veneziano, napoletano, siciliano, piemontese: erano forse meno italiani per questo? Non fanno forse parte della storia che oggi si vorrebbe cancellare?
Il governo dice anche che i discendenti non contribuiscono allo sviluppo della cultura italiana. Come se i milioni di dollari inviati dall'estero per decenni dagli immigrati alle loro famiglie in Italia non fossero mai esistiti. Come se la partenza di oltre 27 milioni di italiani non fosse stata ciò che, paradossalmente, aiutò l'Italia nel dopoguerra a rialzarsi e cominciare a offrire lavoro a chi restava.
Critica chi non ha registrato i figli alla nascita, dimenticando che la maggior parte era analfabeta e povera e la loro unica ossessione era lavorare per tirare avanti la famiglia.
Si dimentica che migrarono in blocco, con i loro paesani, proprio per mantenere viva la cultura e le tradizioni e per aiutarsi a vicenda nei paesi di destinazione, di cui non conoscevano la lingua.
Non riconoscono nemmeno che in ogni paese dove arrivarono quegli italiani fondarono associazioni, camere di commercio, centri culturali, club sociali e migliaia di altre istituzioni che ancora oggi mantengono viva e aperta la cultura italiana, dove si prepara il cibo tipico e si celebrano le feste italiane. Parlo soprattutto dell'Argentina, dove questo è evidente. Lo Stato italiano sembra ignorare —non so se per ignoranza o per strategia— che l'italianità è parte intrinseca dell'argentinidad.
Qualcuno in questo paese può dire seriamente, senza un sorriso sarcastico, che gli italiani non hanno lasciato una traccia profonda nell'identità argentina? Oggi il 60% degli argentini ha ascendenti italiani, e questo si respira nel cibo, nel modo di parlare, nella cordialità, nei gesti.
E c'è un'altra cosa che non vedono: la storia emotiva della migrazione.
Ogni italiano che se ne andò visse con il cuore spezzato. Lasciò genitori, fratelli, terra. In molti casi non poté mai tornare. Formò famiglia nel paese che lo accolse, ma sentì sempre di non appartenere del tutto.
Quando era in Argentina, sentiva nostalgia dell'Italia. E quando tornava in Italia, sentiva nostalgia dell'Argentina.
Molti lavorarono instancabilmente per risparmiare peso su peso —o la valuta che fosse— per poter tornare almeno una volta nella loro terra.
Io posso testimoniare tutto questo. Ho 45 anni e da quando ne avevo 18 sono legata direttamente alla comunità italo-argentina. Lavoro da oltre due decenni con persone che migrarono e con i loro discendenti. Li ho ascoltati raccontare in prima persona le loro storie con le lacrime agli occhi. Ho ascoltato i loro discendenti. Ho ascoltato come cantavano, piangevano, sognavano di conoscere l'Italia, camminare per le strade dei loro nonni, capire da dove venivano. Li ho sentiti cercare di mettere in parole, senza riuscirci, la sensazione che li pervase quando poterono andare per la prima volta. È successo anche a me quella sensazione di stranezza e familiarità allo stesso tempo. I volti familiari, le stesse abitudini.
E posso affermare senza paura di sbagliare: quelli che sentono quel legame profondo e genuino con l'Italia non sono un'eccezione statistica. Sono la maggioranza.
E sì, il passaporto è visto anche come uno strumento di progresso economico. Onestamente, credono di essere in grado di giudicare la mancanza di connessione con l'Italia per questo motivo? Qualcuno ha mai chiesto ai nostri nonni che partirono dall'Italia se emigrarono in Argentina per amore del paese o per necessità? Quale autorità morale può avere lo Stato per criticare questo, se fu proprio la speranza di una vita migliore a generare la migrazione italiana?
E se vogliamo parlare di responsabilità, chiariamo: lo Stato italiano ha stabilito per decenni i criteri per il riconoscimento della cittadinanza. Dal Codice Civile del 1865, passando per la legge del 1912, le riforme giudiziarie degli anni '70 e la legge del 1992, non è mai stato richiesto come requisito parlare la lingua o dimostrare un legame culturale specifico. Lamentarsi ora che non si rispettano regole che non sono mai state parte del quadro legale non è solo arbitrario: è, quanto meno, ipocrita.
Infine, il discorso sulle pratiche fraudolente e sui "furbetti" che fanno le cose male mette in evidenza un'altra scomoda verità: che lo stesso Stato italiano non è stato in grado di controllare, vigilare o sanzionare queste irregolarità.
E invece di assumersi la responsabilità come amministrazione pubblica, sceglie di punire milioni di persone innocenti, fino a ieri cittadini legittimi, che rispettano ciò che la legge storicamente ha richiesto: dimostrare il legame con un antenato italiano.
Questa legge non protegge l'Italia né previene i suoi due maggiori problemi: l'invecchiamento della popolazione e l'emigrazione dei giovani. Questa legge rompe con la sua stessa storia. Rompe con la memoria di chi se ne andò, con i sogni di chi rimase, con l'identità di intere generazioni che non hanno mai smesso di sentirsi parte.
Perché essere italiani non è solo una questione di geografia.
È memoria, è lingua ereditata (anche se in dialetto), è cognome, è cibo, è il pianto per una terra che molti non hanno mai conosciuto, ma che sentono come propria.
E questo, per quante leggi si scrivano, non si cancella mai.